NEBBIA BASSA BON TEMPO LASSA

 

«Nebbia bassa bon tempo lassa».  Quando la nebbia c’investiva, salendo dal fondo della vallata, restavamo annegati in quell’ovatta di madreperla che il sole radente empiva di schegge e polvere di rame; e quando poi la torre appariva decapitata con la cima ancora nasco­sta nella base scorrente di quella cortina, e ci ritrovavamo nell’aria trasparente, il giorno aveva fatto un salto alle nostre spalle, il paese già stava nell’ombra, e guardavamo il cranio della montagna pelata e i paesi della solagna, asciugati da un sole rosso, di rimpetto a noi. Per questo ci chiamavano gente dell’opaco. La nebbia s’andava ad ammassare contro il bosco facendo l’erta di corsa, e lasciava appesi ai rami delle querce lenti fiocchi estatici; e pareva un incendio senza fiamme, messo in fuga dal fiato d’un gigante invisibile, e attraver­sato dai lontani scampanii delle capre che ritornavano. Ci riappariva il cielo d’un verde che metteva il freddo addosso, e dal fondo della valle salivano la sera e i lumi dei caselli ferroviari. La faccia arrossata, screpolata, inaridita dal vento, e una barbaccia del color delle foglie rossiccie degli alberi in autunno. Arrivava gesticolando, mugolando, voltandosi ogni tanto e marciando all’indietro, scagliando sassi alle bestie, ai cani, agli uomini, acutissimi fischi, grida, parole rau­che incomprensibili, nomi d’ogni sorta di santi; e sembrava disperatamente inteso a trattenere un invasione che dovesse travolgere il paese. Piangevano i neonati, che i pastorelli portavano in braccio, avvolti nelle coperte; rispondevano le madri, stimolate dalle mammelle grosse; e ora tutto il gregge belava, sentendo le case, il caldo delle stalle, sognando il sale,  la fronda di quercia, e una lunga notte passata a ruminare fra i piccoli, che avrebbero dato testate, traballando sulle gambe sottili. I cani impazzivano, correndo avanti e indietro, raggiungevano il capo, ripartivano scagliati dalle sue bracciate e da raschi gutturali. Per l’ultima gobba del monte quella massa franava tra le case, sul terrapieno della piazza, e di là si divideva, si sparpagliava, in tanti rigagnoli, mentre il pastore urlava in faccia a quelli che incontrava una novità; inseguito dai sassi che rotolavano al suo passaggio, si gettava in quel letto di torrente che sprofondava alla coda del paese; risaliva di corsa, cercando i dispersi e i disertori, poi riappariva placato, nel volto, nella malizia elementare degli occhi, quell’insieme che faceva pensare alla vita degli alberi e degli animali, e si dileguava nella sera, come l’apparizione d’un’esistenza immemorabile. Anche in quel periodo che l’inverno l’obbligava a pernottare in paese era un mistero, poco si faceva vedere, non andava a bere per le cantine; egli non conosceva il denaro, e non stava a discorrere. Molte parole di quelle che comunemente si usavano, le ignorava, e ne usava delle altre, forse inventate, stando con le bestie, ed era diffi­cile capirle.

 

 

Non aveva casa, non aveva moglie, non figli. Non s’era sposato perché i ragazzi lo avevano sentito dire invece di piedi, aveva zoccoli dentro le scarpe, e perciò sin da piccolo s’era voluto mettere con le bestie. Agli uomini quel solitario non domandava mai nulla, e se lo pren­deva la febbre, aspettava che gli passasse, avvolto nelle coperte, co­ricato fra le bestie, sotto le stelle. All’aria aperta stavano le rocce incavate, le piante, le sorgenti, i sentieri ch’egli conosceva e gli erano amici, ed il suo dominio, strano convento, entro una palizzata e una rete. Sulle stoppie, nelle notti destinate ad ingrassare la terra, o dentro una ruga della montagna, tra i fuochi e le caldaie, attirava le masse carnose nella tina, ad una ad una, lentamente le spremeva, dolcemente, senza stancarle; divideva il pastone di siero e pane, fra i cani, pronto a correre con essi all’attacco, impugnando l’accetta; e poteva parlare col cielo, con le nuvole, le ore, le

 

stagioni, gli animali, ascoltarli ed essere inteso. Al mattino, erano gli animali che svegliavano il suo tardo sonno, col fiato, andando a sussurrargli all’orecchio, ed egli li conosceva, li riconosceva, chiamava. Compativa le rare pecore, esseri delicati, capitati a vivere con una razza dura, in una contrada ostile, esseri più ricchi degli altri, e difendeva la loro sorte. Così  tutti sentivano di essere capiti da lui.