DOMENICHE D’INVERNO IN ABRUZZO |
|||||
A un tratto sembrava che il sole avesse fretta di calare; gli ultimi raggi li mandava accesissimi, vinosi, sulle campagne che già si gonfiavano di nebbie. E la notte era caduta senza sera, e la sera era quella dei lumi che s’aprivano dietro i vetri delle case; le famiglie stavano già attorno al fuoco, s’udiva rumor di scodelle, il pianto d’un bambino, il muggito d’una mucca. Il suono della campana spegneva l’ultima luce del giorno. Cosi trapassava il giorno festivo, che pure è sempre più lungo degli altri; tanto che chi lo ricorda, da quando mezzogiorno suonava a doppio dopo la Messa, e la gente usciva dalla chiesa e s’affrettava per la salita, rivedeva i grani teneri e i foraggeti cupi e le file dei pioppi lungo il fiume cambiar colore al vento asciutto e luccicante che gonfiava l’aria; e tutto gli pareva lontano, ora ch’è sera, e quasi smemorato e triste. Più allegro era il giorno di lavoro, quando si andava, presto, sul campo, e chi zappa e chi pota, e non c’è tempo da star li a guardare il giorno trapassare con le mani inoperose. Anche la sera era più allegra; tanto che, appena era scuro e a scalzare ancora con la zappa attorno alla vite si sarebbe potuto far danno, il contadino si levava gli stivali di pezza legati al piede e al ginocchio, li scrollava e se ne ritornava a casa con la pipa accesa, dove l’aspettava la minestra nella pignatta. Dopo l’abbeverata, le vacche s’adagiavano grevi, con un crollo e uno sbuffo, sulla lettiera pulita, e si mettevano a ruminare. Fumava la lucerna un immobile filo nero verso il soffitto, e il chiarore traspariva dalla porta. Non passava molto che la vecchia usciva, curva, con la conocchia infilata al busto, zoppicando; poi venivano le ragazze con le matasse di lino e di refe, e i giovanotti s’avvicinavano in punta di piedi alla porta. E ciascuno riconosceva quella voce, chiara, ridente che parlava al suo cuore tra il lamento stridulo dell’arcolaio e il mormorio delle chiacchiere. Queste erano le lunghe veglie d’inverno, in fondo alla stalla, nel fiato calmo delle vacche distese sulla paglia. Chi usciva a vedere se erano apparsi i «bastoni» e se la «gallinella» era salita con quella covata di stelle verdi e tremanti nel cielo sereno senza luna, udiva la fontana solitaria e il richiamo maligno della civetta. E vedeva il paese, nero, contro il cielo, come una rupe. A stare in ascolto, non una voce, nella vastissima notte. Tutte quelle stelle, e quel polverio luminoso ch’è la via della Madonna, travalicante il cielo da montagna a montagna, e quel brivido gelato del mondo, nel silenzio e nello spazio, gli facevano pensare a chi gira di notte. Passeggeri, gente spersa. Poiché di giorno tutta la campagna era amica, e le strade erano tutte legate al paese, chi va e chi torna, canta e si saluta. Ma dì notte, se uno svolta dietro la casa alla campagna, e sente gli alberi oscillare al buio, sosta con l’orecchio teso, e quasi ha timore d’affacciarsi al muro che strapiomba gia per udir lo scrosciare cupo del fiume contro gli scogli. E allora si metteva, non si dice per paura, a fischiettare. Ma rientrando, dopo aver dato un’altra occhiata a quel cielo così lontano e brulicante, la soglia di casa gli pareva il solo luogo sicuro del mondo, e sprangava l’uscio con un misto di gioia e d’orgoglio. La casa era veramente il solo sicuro rifugio del mondo: là il caldo degli affetti, le voci care, il silenzio fiducioso degli occhi. La famiglia.
|