DOMENICHE D’INVERNO IN ABRUZZO

 

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 25 febbraio 2006 - Sculture di Cascella sul lungomare di Pescara

 

Le domeniche di gennaio erano le più belle perché si passavano in piazza e sulle aie, e se c’era sole, tutto il paese da mezzogiorno a sera usciva sui ballatoi,  passeggiava dietro le fratte, guardava i campi e  parlava della stagione. Qualcuno, facendo finta di nulla, andava a dare dal poggio una guardata al suo maggese, e masticava tra le labbra un filo d’erba secca o un rametto strappato alla siepe. Le donne mettevano a brillare  al sole, sulle pietre del ballatoio in cima alla scala, conche e scodelle di rame, pulite come l’oro.  I vecchi facevano cerchio attorno al pilastro dove da tanti anni stava infissa, fra quattro cunei di legno,  la croce che si vedeva appena si svoltava , una croce nuda e nera, smangiata dall’ acqua. I ragazzi  talvolta vi si arrampicavano, arrancando uno sotto l’altro; ma c’era sempre qualche vecchio che alzava il  bastone e li minacciava, mentre gli usciva la sa­liva dalla bocca tra parole di malaugurio. Allora i ragazzi  scappavano via e andavano a fare a sassate, nascosti dietro i tronchi delle querce che stillavano umidore dai rami nudi e inverditi di muffe. Per tutto il giorno, dalle grondaie acqua di neve sciolta dal sole, che indugiava sui tetti, cadeva schioccando allegra; e scorreva in ri­gagnoli, rivi e pozze, sulle quali svolazzavano e stridevano galline quando passava braccando  un cane da pastore. Prima che l’ombre cadessero, fitta fitta, in un trapasso  subitaneo e azzurrognolo, il sole si rifletteva melanconico e dorato, come per un indugio estatico, sui muri bianchi, sui vetri, e sotto l’arco d’una porta. L’inverno è senz’ombre dolci; la notte trabocca.       

 

 

 Aquila - La Fontana Luminosa

 

A un tratto sembrava che il sole avesse fretta di calare; gli ultimi raggi li mandava accesissimi, vinosi, sulle campagne che già si gonfiavano di nebbie. E la notte era ca­duta senza sera, e la sera era quella dei lumi che s’aprivano dietro i vetri delle case; le famiglie stavano già attorno al fuoco, s’udiva rumor di scodelle, il pianto d’un bambino, il muggito d’una mucca. Il suono della campana spegneva l’ultima luce del giorno. Cosi trapassava il giorno festivo, che pure è sempre più lungo degli altri; tanto che chi lo ricorda, da quando mezzogiorno suonava a doppio dopo la Messa, e la gente usciva dalla chiesa e s’affrettava per la salita, rivedeva i grani teneri e i foraggeti cupi e le file dei pioppi lungo il fiume cambiar colore al vento asciutto e luccicante che gon­fiava l’aria; e tutto gli pareva lontano, ora ch’è sera, e quasi smemorato e triste. Più allegro era il giorno di lavoro, quando si andava, presto, sul campo, e chi zappa e chi pota, e non c’è tempo da star li a guardare il giorno trapassare con le mani inoperose. Anche la sera era più alle­gra; tanto che, appena era scuro e a scalzare ancora con la zappa at­torno alla vite si sarebbe potuto far danno, il contadino si levava gli stivali di pezza legati al piede e al ginocchio, li scrollava e se ne ritornava a casa con la pipa accesa, dove l’aspettava la minestra nella pignatta. Dopo l’abbeverata, le vacche s’adagiavano grevi, con un crollo e uno sbuffo, sulla lettiera pulita, e si mettevano a ruminare. Fumava la lucerna un immobile filo nero verso il soffitto, e il chiarore traspa­riva dalla porta. Non passava molto che la vecchia usciva, curva, con la conocchia infilata al busto, zoppicando; poi venivano le ragazze con le matasse di lino e di refe, e i giovanotti s’avvicinavano in punta di piedi alla porta. E ciascuno riconosceva quella voce, chiara, ridente che parlava al suo cuore tra il lamento stridulo dell’arcolaio e il mormorio delle chiacchiere. Queste erano le lunghe veglie d’inverno, in fondo alla stalla, nel fiato calmo delle vacche distese sulla paglia. Chi usciva a vedere se erano apparsi i «bastoni» e se la «gallinella»  era salita con quella covata di stelle verdi e tremanti nel cielo sereno senza luna, udiva la fontana solitaria e il richiamo maligno della civetta.  E vedeva il paese, nero, contro il cielo, come una rupe. A stare in ascolto, non una voce, nella  vastissima notte. Tutte quelle stelle, e quel polverio luminoso ch’è la via della Madonna, travalicante il cielo da montagna a montagna, e quel brivido gelato del mondo, nel silenzio e nello spazio, gli facevano pensare a chi gira di notte. Passeggeri, gente spersa. Poiché di giorno tutta la campagna era amica, e le strade erano tutte legate al paese, chi va e chi torna, canta e si saluta. Ma dì notte, se uno svolta dietro la casa alla campagna, e sente gli alberi oscillare al buio, sosta con l’orecchio teso, e quasi ha timore d’affacciarsi al muro che strapiomba gia per udir lo scrosciare cupo del fiume contro gli scogli. E allora si metteva, non si dice per paura, a fischiettare. Ma rientrando, dopo aver dato un’altra occhiata a quel cielo così lontano e brulicante, la soglia di casa gli pareva il solo luogo sicuro del mondo, e sprangava l’uscio con un misto di gioia e d’orgoglio. La casa era veramente il solo sicuro rifugio del mondo: là il caldo degli affetti, le voci care, il silenzio fiducioso degli occhi. La famiglia.

 

Francavilla al mare ( CH ) - La spiaggia d'estate

 

 


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